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Salò o le 120 giornate di Sodoma: ancora una parola su Pier Paolo Pasolini

P.P. Pasolini, Salò

Molto si è detto e molto ancora si dirà sul film Salò di Pier Paolo Pasolini e sull’opera complessiva di questo autore poliedrico. Un’opera stroncata dalla morte, da una fine dolorosa e ingiusta. Inevitabile che una conclusione del genere porti con sé una cesura inaspettata anche nella produzione che acquisisce, dal momento della morte del suo autore, un sapore di incompiutezza, di un disegno non concluso, che crea certo maggiore fascinazione, ma allo stesso tempo genera una molteplicità di interrogativi che, come i confini dello stesso progetto pasoliniano, vanno perdendosi tra i limiti del deserto della fine.

L’olio della macchina del male

Salò è l’ultima pellicola di Pasolini, del 1975. Per molti, essa rappresenta la migliore realizzazione cinematografica dell’autore, il suo capolavoro. Un giudizio di gusto, questo, sul quale non ci si vuole soffermare tanto, per concedere spazio, invece, a una considerazione complessiva della figura delle tre narratrici nell’opera. Si tratta della signora Castelli, della signora Maggi, e della signora Vaccari che, nella riflessione possono essere prese assieme, senza tener conto troppo delle singole individualità; ciò è concesso dal ruolo simbolico che esse complessivamente ricoprono nel realismo allegorico della pellicola.

Una scena del film (Fonte: IMDB)

Nella trama del film, esse hanno dapprima la funzione di reperire le migliori vittime, le fanciulle e i fanciulli più adatti allo sfruttamento, per poi intrattenere con i loro racconti la tragica brigata nel palazzo dove per 120 giorni, durante il periodo repubblichino, viene instaurata una dittatura sessuale fondata sulla perversione, sulla prevaricazione e sull’alienazione. Le narratrici in questa macchina fungono da olio per gli ingranaggi, i quali debbono marchiare la materia inerme, la carne innocente dei fanciulli; un ruolo fondamentale, quindi, e terribile. Nelle parole, che esse proferiscono nei loro racconti, emerge la dimensione ricorsiva del male, l’eterno ritorno che non permette alcuna virata verso altri lidi. Esse, più dei signori (pur crudeli) rappresentano l’impossibilità di una qualsiasi scelta libera e alternativa entro una dinamica che procede inarrestabilmente verso lo sfruttamento dei corpi. A tal proposito, non va dimenticato che le tre signore, prima ancora di essere collaboratrici del male, sono state sue vittime. La carne tormentata dallo strazio del terrore, non può che farsene portavoce. Pare questo il senso, nemmeno troppo celato, della loro presenza nel racconto. Questa dinamica circolare del male miete vittime e, al tempo stesso, produce nuovi portavoce. Ciò si avvera, per esempio, nella figura del fanciullo che diviene pian piano accondiscendente nei confronti di uno dei signori.

Possibili alternative al meccanismo? 

Lo sguardo sul ruolo delle narratrici nella struttura del film, assieme all’uccisione del soldato repubblichino che muore mentre fa il gesto del pugno, colto nell’atto sessuale con un’inserviente nera, ma anche assieme al suicidio della pianista, permettono una considerazione più ampia sul pensiero pasoliniano.

Si consideri, allora, la domanda: quale redenzione v’è per la società capitalistica? Molti hanno sottolineato il riferimento evidente della pellicola alla società dei consumi, alle sue brame e alle sue aspirazioni totalizzanti. Nel film, il disegno di questa società pare ormai un dato di fatto inequivocabile, ma anche immutabile. Una destinalità forte lega l’uomo di questa società alla perversione, ma anche alla perpetuazione del meccanismo stesso entro cui egli si ritrova. Il giudizio incarnato a forza impedisce la scelta.

(Fonte: IMDB)

In questa società tratteggiata da Pasolini, due paiono le alternative: essere le vittime oppure, come le narratrici, collaboratori nella perpetuazione del male. Questa dualità è evidente anche in un’intervista di cui Pasolini è protagonista e in cui egli stesso ammette l’impossibilità di essere fuori dal sistema capitalistico, che si attesta come necessario per la sopravvivenza.

Se il sistema si pone come un dato di fatto immutabile, interessante e tragica è allora la prospettiva del marxismo che vien fuori dal film. Nella pellicola, infatti, il marxismo è il grande non-detto, l’impronunciabile che probabilmente l’osservatore esterno invoca con forza, per salvare le vittime, redimere l’umanità. Eppure non viene.

La direzionalità della storia è sancita fin dall’inizio: tutto ciò che si frappone è un inefficace ostacolo rispetto al procedere inarrestabile della potenza del meccanismo capitalista. Da ciò probabilmente si percepisce meglio, forse, un ultimo possibile approdo del pensiero pasoliniano a un pessimismo cosmico: nessuna redenzione nella storia dell’umanità né come destino inscritto nel divenire, né tanto meno come esito di una lotta di classe.

Questa conclusione pare categorica, eppure al termine del film v’è ancora un’ansia di sapere, che mai sarà soddisfatta. La sospensione è prodotta dalla posizione della pellicola, situata come si diceva in apertura sul limitare di una vita stroncata dall’omicidio. Si ha come il desiderio di comprendere se quella del film sia l’ultima parola di Pasolini sull’umanità; se, insomma, sia ancora possibile una dialettica entro le dinamiche così ben definite e così tanto rapide, quali sono quelle del capitalismo.

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