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RIDE | Quel dolore che il mondo non riesce a capire

C’è un modo per vivere il dolore? Secondo Valerio Mastandrea, attore e ora regista della sua opera prima, Ride, presentata in concorso alla 36. edizione del Torino Film Festival, no. Il suo film racconta di un lutto causato da una morte bianca il cui dolore fatica ad esplodere nel cuore e sul viso di una giovane donna, interpretata da una splendida Chiara Martegiani. Un film sul sociale, tremendamente attuale, ma che ha l’originalità e la freschezza di un racconto naif e poetico. Sospeso tra realtà e sogno, Ride dà il suo meglio proprio quando si discosta da un certo genere di cinematografia impegnata, che insegue ossessivamente il realismo più spietato, per restare sui toni intimi delle emozioni vissute e viste con l’ingenuità di un bambino.

“Mamma ride”. Bruno ha 10 anni, ha appena perso suo padre, Mauro Secondari, deceduto in un incidente in fabbrica, e la sua mamma, Carolina (Chiara Martegiani), non riesce a piangere per la scomparsa improvvisa e prematura del suo compagno. Intanto il giorno dei funerali si avvicina e Carolina si sente sempre più pressata dal mondo circostante che si aspetta di vedere dipinto sul suo volto un dolore inconsolabile e struggente, un dolore che lei però non riesce a vivere e nemmeno a manifestare.

Non che Carolina sia in alcun modo felice di questa perdita, ma la sua emotività è come bloccata in una bolla che non riesce a esplodere. Si potrebbe pensare ad una delle 5 fasi del lutto, quella del rifiuto, ma Mastandrea sapientemente evita di indugiare in una superficiale analisi psicologica e semplicemente racconta lo stato emotivo di Carolina attraverso i suoi sguardi e i suoi gesti. Martegiani lo segue alla perfezione e in più di un una scena la sua interpretazione del personaggio di Carolina è tanto convincente e tridimensionale da risultare quasi ipnotica. Il suo silenzio emotivo è palpabile e, lungi dall’essere vuoto, con la sua recitazione Martegiani riesce renderlo più eloquente di qualunque battuta.

In attesa di riuscire a provare la sofferenza di cui sente di avere tutto il diritto, intanto Carolina ride. Ride guardando le foto, ride riascoltando quei brani che dovrebbero farle riaffiorare i ricordi e in questo modo farle percepire tutto quel dolore per la perdita di cui sente il bisogno. Bastano però gli altri attorno a lei a soffrire. Il dolore delle persone, che invadono la sua giornata rovesciandole addosso un flusso ininterrotto di emozioni negative, basta anche per lei e da loro Carolina cerca di reimparare a piangere come sapeva fare un tempo, ma non ci riesce.

“Il punto di partenza – ha spiegato Valerio Mastandrea in conferenza stampa a Torino – è stato il voler raccontare come nell’epoca in cui viviamo sia molto difficile entrare in contatto con le proprie emozioni, che siano di gioia o di dolore. Mi interessava dare la colpa – se di colpa si può parlare- a quanto la società impedisce, condiziona persino nel vivere queste cose in maniera sana. C’è un modo per vivere il dolore? No, probabilmente i parametri cambiano per tutti, l’importante è che ciascuno sia libero di viverselo come vuole. È come se la morte bianca, a cui spesso siamo come assuefatti, fosse il simbolo dell’ipocrisia di una società che la condanna, la giudica ma di fatto non la ferma. Un personaggio nel film dice: ‘Si muore in guerra ma non sul lavoro’; credo che in questa frase ci sia tutta la recriminazione della protagonista nei confronti del mondo che le impedisce di stare sola con il suo dolore”.

A modo loro soffrono anche Cesare (Renato Carpentieri), padre di Mauro, e il suo nipotino Bruno (Arturo Marchetti). I più anziani e i bambini in Ride sembrano gli unici a riuscire ad avere un rapporto spontaneo e naturale con il dolore. Nel loro stringersi agli amici più cari, i tre vecchietti in un pranzo in riva al mare e i due bambini su una terrazza in cima ad un palazzo, discutono, pianificano e a tratti soffrono. Si impegnano a pianificare azioni che tutto sommato destano una incredibile tenerezza, consapevoli che presto il dolore li paralizzerà completamente.

L’opera prima di Mastandrea come regista è decisamente originale, intensa come un sogno vivido. Fintanto che il film riesce a raccontare il dolore in questo modo, poetico e naif, non risulta mai scontato né noioso. Vacilla però un po’ in alcune scene che inciampano sui toni di un racconto dal realismo drammatico, oscuro, criminale e soprattutto del tutto superfluo.

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