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Contagi in carcere. La figlia di un detenuto: «mio padre è là dentro e non so come sta»

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Fonte immagine: g2r

Annalisa è la figlia di un uomo detenuto nel reparto di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia. È una studentessa, una ragazza come tante altre con la sua storia. In lei c’è il fervore strozzato di chi sa amare profondamente senza poter fare nulla per chi ama.

Il dramma di avere un padre detenuto in carcere nel pieno dell’emergenza coronavirus lo si comprende non tanto dalle parole, ma dalla voce tremante e resiliente di una figlia che ha paura. Con Annalisa volevamo far capire che un padre ed una figlia rimangono tali in qualunque circostanza, che mai si smette di lottare per il diritto alla vita di chi si ama.

Abbiamo parlato dell’inadeguatezza delle misure predisposte dal Decreto Cura Italia per fronteggiare l’emergenza covid-19 in carcere e soprattutto della decisione di escludere a priori dalla detenzione domiciliare le persone detenute per reati ostativi.

Chi sono i detenuti ostativi? Sono le persone che scontano una condanna secondo l’articolo 4 bis, ovvero coloro che nella maggior parte dei casi vivono la loro reclusione in reparti distinti dell’Alta Sicurezza, avendo commesso reati concernenti associazione mafiosa, narcotraffico o terrorismo. Ma ogni storia è a sé, come quella del padre di Annalisa.

Quando è iniziata la detenzione di tuo padre? E per quanto altro tempo dovrà rimanere in carcere?

Mio padre è detenuto dal 2013, mancano meno di 4 anni alla fine della sua condanna. Tra l’altro è recluso per un reato di 20 anni fa. La situazione di mio padre è particolare perché il suo non è un reato ostativo, quindi non dovrebbe neanche stare nel reparto di Alta Sicurezza. Nella sentenza di appello è caduto l’articolo 4 bis e a quel punto abbiamo fatto richiesta dei domiciliari, ma – come si dice in gergo – in Cassazione è andato definitivo e a quel punto, nel 2017 è stato portato a Rebibbia. Proprio i giorni delle rivolte (6, 7, 8 e 9 marzo) sono stati i suoi primi giorni di permesso per uscire. Ha 63 anni e tra l’altro soffre di una patologia da ipertensione arteriosa, con l’avvocato stiamo cercando di richiedere un differimento di pena. Pensa che il 9 marzo abbiamo dovuto riportarlo a Rebibbia, proprio nella fase clou della rivolta.

Sono stati sospesi i colloqui, qual è ora l’organizzazione nel reparto di Alta Sicurezza a Rebibbia per consentire la comunicazione con i propri cari?

Abbiamo la videochiamata ogni mercoledì e ci sentiamo tramite mail. Anche la polizia penitenziaria di Rebibbia in questo momento sta facendo il possibile: gli agenti hanno famiglia e quindi capiscono la situazione, tante volte magari ci concedono quei 5-10 minuti in più di videochiamata che non guastano. Ma in generale la situazione è assurda perché sembra che nessuno sappia niente: i detenuti sembrano essere invisibili. Solo ultimamente qualcuno sta iniziando a parlare, come nel caso di Giuseppe Cascini, membro del Csm, che sembra essere dalla nostra parte. L’unica cosa che ha fatto il governo è stata prendere la legge 199, già esistente, e fingere di averla introdotta ora. Di conseguenza i detenuti che possono uscire sono pochissimi, perché la maggior parte di loro ha già usufruito di questa legge. Senza considerare che a causa dell’obbligo dei braccialetti elettronici non è uscito quasi nessuno. Lo stesso Cascini ha definito insufficienti le misure prese e inutili i braccialetti elettronici dal momento che le città sono ben presidiate e nessuno può uscire.

Che tu sappia, qual è adesso lo stile di vita a cui sono sottoposte le persone detenute in Alta Sicurezza?

Beh, intanto non hanno contatti con nessuno, né con i volontari, né con le persone esterne tanto meno con la famiglia. In più la paura di poter contrarre il virus. C’è da precisare che il reparto di Alta Sicurezza di Rebibbia non ha preso parte alle rivolte, nessuno di loro. Per giunta mio padre in quei giorni era in permesso fuori dal carcere. Quindi trovo anche ingiusto che proprio loro, considerati sempre i più pericolosi, debbano pagare lo scotto di queste rivolte. Premettendo però che è anche comprensibile perché gli altri detenuti abbiano voluto fare queste rivolte: vogliono essere ascolti, era un modo per essere ascoltati. Le rivolte sono nate da un grido di dolore e di speranza.

Per quanto riguarda gli uomini dell’Alta Sicurezza posso dire che alle spalle hanno tantissimi anni di galera. Molti di loro stanno facendo un percorso straordinario, alcuni sono entrati senza il diploma di scuola elementare e ora hanno lauree magistrali di ogni tipo. Eppure il loro percorso rieducativo non viene affatto riconosciuto e non godono di alcuna possibilità, come quella dei permessi premio. Se non sbaglio su circa 60mila detenuti, più o meno 6mila hanno partecipato alle rivolte e sono tutti detenuti ai reparti comuni, nonostante questo si è avuto il coraggio di scrivere che dietro le rivolte c’è stata un’organizzazione mafiosa.

L’opinione pubblica ha una visione distorta dei detenuti. Non sono considerati uomini, ma quasi come una sottospecie del genere umano.

Sì, l’opinione pubblica ne ha una visione esclusivamente negativa, ma i detenuti non sono animali, sono persone. Solo se ci sei passata o solo se lavori a contatto con loro capisci che è così. Ed è assurdo che questo avvenga in una società democratica e moderna come la nostra. Anche in questa situazione ci sono persone che parlano di svuotacarceri mascherato, quando in realtà sono uscite veramente poche persone.

Non credi che il retaggio culturale del nostro Paese, in cui la mafia è diventata quasi uno stereotipo, impedisca alle persone cosiddette libere di accettare che vengano applicati gli arresti domiciliari a chi sconta una condanna per reati inerenti all’associazione mafiosa?

Ribadisco che il reato di mio padre non è ostativo, ma in ogni caso le persone dell’Alta Sicurezza sono le meno soggette al rischio di recidiva: nella gran parte dei casi parliamo di uomini che entrano in carcere all’età di 20 anni e quando ne hanno 50 sono ancora lì, senza aver mai goduto di un briciolo di beneficio. Questa è una grande contraddizione perché non viene considerata la singola persona. C’è chi studia, chi fa attività di teatro, chi scrive libri.

Lo ripetiamo: il Decreto Cura Italia prevede che possano accedere agli arresti domiciliari i detenuti che hanno una pena residua di massimo 18 mesi, ma sono esclusi i detenuti per reati ostativi. Cosa significa essere figlia di un uomo che non ha lo stesso diritto alla salute degli altri padri di famiglia fuori dal carcere?

Noi familiari non dormiamo. La mia è un’ansia perenne. Poi mio padre ha 63 anni e soffre di una patologia che tiene sotto controllo con i farmaci ma ho sempre l’ansia che possa venirgli un infarto o qualsiasi cosa e sappiamo bene che la sanità nelle carceri è pessima. Se lui dovesse contrarre il virus, sia per la patologia di cui soffre sia per l’età che ha, c’è un’alta probabilità che possa andare in terapia intensiva. Se già fuori viviamo una realtà in cui non si riesce ad avere posti sufficienti per la terapia intensiva, figurati per i detenuti. Se si ammalano loro come si fa?

Dal 2013, anno in cui è iniziata la detenzione di tuo padre, ad oggi vi è mai capitato di vivere una situazione – per quanto diversa da questa – simile per complessità e stati d’animo?

Con mio padre ho un rapporto viscerale, quindi questo tutti i giorni. Avere un padre chiuso in carcere significa effettivamente non sapere come sta. Soltanto quando lo senti o quando lo vedi ti rendi conto che va tutto bene. È vivere con il terrore.

Fa un po’ ridere il fatto che in questo momento si dica che stiamo sperimentando la vita delle persone recluse. L’unico tratto, a volerne trovare uno, che può accomunare le due condizioni è l’essere fortemente preoccupati per qualcuno e non poter fare niente.

La parola giusta è impotenti. Noi familiari ci sentiamo impotenti. I detenuti sono invisibili, chi c’è dalla nostra parte? Chi pensa a loro? Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non sta facendo nulla. Ho inviato cinque mascherine a mio padre, perché mi ha scritto di averne bisogno, ma non sappiamo nulla di quello che sta accadendo, molte cose vengono nascoste. Neanche i poliziotti penitenziari sono sufficientemente tutelati. Nelle carceri del nord il virus si sta propagando e anche velocemente. Tutti i giorni moriamo all’idea che ci possano dire che qualcuno è stato contagiato, perché poi verrebbero contagiati tutti ad effetto domino. Fa ridere paragonare le due condizioni perché noi abbiamo internet, possiamo sentire i nostri cari quando vogliamo, possiamo soprattutto affacciarci al balcone, mentre a loro è stata tolta anche l’ora del passeggio proprio per evitare gli assembramenti.

Prima dicevi che il rapporto con tuo padre è viscerale. Se dovessi dire, in poche o tante parole, chi è per te tuo padre?

Chi è? Per me è tutto, è la mia vita. È una persona fantastica, dolcissima. Un detenuto è una persona normale. Il rapporto che noi figlie abbiamo con i nostri padri detenuti è quasi triplicato, proprio perché loro si perdono tante cose di noi. Mio padre ha perso la mia laurea e per me è stato atroce non averlo vicino, sognavo che fosse lui a mettermi la corona di alloro. E questo non è stato possibile. L’ora in cui noi stiamo insieme è un’ora di amore puro. Ci mancano già tanto nelle situazioni quotidiane, figurati adesso in questa situazione di emergenza. Io sono figlia e ho le stesse preoccupazioni di un’altra figlia che ha il proprio padre a qualche metro di distanza. Io, il mio, lo ho là dentro e non so come sta.

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