LA SCUOLA DI ATENE – Dell’arte e de i costumi: Ipazia, o la bellezza ferita
In anticipo rispetto ai piani di pubblicazione, ma con il tempismo necessario di chi non vuole perdersi nell’ordine delle sue narrazioni della realtà, ci concentriamo oggi sulla figura di Ipazia. Benché alcuni interpreti abbiano attribuito alla figura in foto l’identità di Francesco Maria della Rovere, nipote di papa Giulio II, committente dell’affresco, la maggioranza è concorde nel riconoscervi le fattezze della filosofa neo-platonica del IV secolo Ipazia d’Alessandria. Giovanni Reale, grande filosofo italiano venuto a mancare da qualche anno, fu talmente colpito dalla magnificenza e dalla perfezione della figura femminile creata da Raffaello da attribuirle il valore simbolico di rappresentante del concetto di kalokagathìa greca (eccellenza umana, che coniuga bellezza e bontà). Sarebbe pertanto facile tradurre i due elementi appena considerati, l’eccellenza di una delle poche donne ricordate nella storia della filosofia e il valore simbolico di ogni bellezza e bontà, in un omaggio alle donne nel giorno che a loro viene dedicato. E, lo confesso, era questa l’intenzione con cui era partito il mio articolo almeno fino a quando tre notizie ne hanno cambiato radicalmente la natura.
La prima è stato un approfondimento della vita, o meglio della morte, di Ipazia. Senza dilungarmi in noiose questioni storeografiche posso sintetizzare le posizioni degli studiosi come segue: Ipazia, a capo di una delle più feconde e rigogliose scuole filosofico-scientifiche dell’epoca, venne uccisa da personaggi (probabilmente cristiani) ostili al ruolo che la libera pensatrice aveva assunto ad Alessandria. La seconda notizia è l’uccisione delle suore dell’ordine di Teresa si Calcutta in Yemen qualche giorno fa, notizia tristemente sottaciuta dai quotidiani ma riportata dal pontefice in un commosso passaggio del suo angelus domenicale. La terza è di oggi e, in una escalation di brutte notizie, riguarda le violenze subite da una quindicenne indiana a cui è seguito un pubblico rogo (la ragazza è in fin di vita, per chi non avesse avuto modo di leggere sull’accaduto).
La realtà ha implacabilmente squarciato il velo etereo della kalokagathìa della figura dipinta da Raffaello, lasciando un vuoto e un silenzio apparentemente incolmabili nel giorno che, invece, dovrebbe essere dedicato ad una festa. Ma è la stessa raffigurazione di Ipazia, o chi per lei, a suggerirci una via d’uscita. A chi avesse avuto il privilegio di osservare dal vivo ‘La scuola di Atene’, o almeno di contemplarne con attenzione i particolari nelle foto e nelle riproduzioni, non sarà sfuggito che la figura femminile è l’unica a rivolgere lo sguardo verso l’esterno, creando un rapporto personale e privilegiato con noi che osserviamo. Questa ‘dipendenza’ dal rapporto non sta a significare subordinazione ma, piuttosto, la fragilità di una bellezza che può venir ferita in qualsiasi istante. Venne ferita quando si negò ad una donna, in quanto tale, di professare liberamente delle idee; viene ferita dall’uccisione di donne che hanno dedicato la loro vita ad altri e che noi, nel nostro silenzio indifferente, feriamo doppiamente; viene ferita infine in contesti culturali nel quale piuttosto che curare e valorizzare la fragilità di questa bellezza, la si intende come sintomo di debolezza e subordinazione.
Lo sguardo di Ipazia è invece un messaggio di pace. Non parliamo qui della semplice (e non trascurabile) assenza di guerra, ma di quella pace positiva che significa sviluppo di valori e virtù fondamentali per la società. Tra questi c’è il riconoscimento dell’uguaglianza della donna rispetto all’uomo e, parallelamente, l’esaltazione della sua specificità. Non è un caso che il sostantivo pace, sostantivo femminile, venga dalla radice indoeuropea pak, pag che stava per ‘legare, unire’; è in fondo ciò che lo sguardo fiero e fragile di Ipazia ci chiede ed è anche il motivo per cui porgo i miei più sentiti auguri a tutte le donne.
Paolo Santori