L’Eco dell’Economia: parola a Tito Boeri
Tito Boeri è economista e professore ordinario e direttore del dipartimento di economia dell’Università Bocconi di Milano e Senior Visiting Professor alla London School of Economics (dove è stato Centennial Professor). Lo abbiamo intervistato alla luce del nuovo progetto editoriale della rivista “Eco”.
Innanzitutto, congratulazioni per la nuova avventura della rivista Eco. Da dove nasce l’idea della rivista e come è stata strutturata e pensata la redazione di Eco?
La rivista è in linea con altre operazioni di divulgazione in cui sono stato impegnato in questi anni, a partire dall’esperienza della lavoce.info e l’esperienza del Festival dell’Economia prima a Trento e poi adesso a Torino. Eco nasce in linea con queste operazioni ma allo stesso tempo è un progetto editoriale diverso in quanto si pone l’obiettivo di raggiungere direttamente un vasto pubblico, mentre lavoce.info era rivolta principalmente a giornalisti e opinion makers.
Eco risponde ad una domanda crescente di informazione e di qualità su temi economici. Tale richiesta è dovuta in parte ad un interesse generale delle persone che vogliono formarsi un’opinione su questioni rilevanti ed in parte anche al fatto che ormai viviamo in un mondo in cui tutti sono chiamati quotidianamente a fare delle scelte economico-finanziarie importanti per loro e hanno spesso pochi strumenti per affrontare decisioni complesse.
Oggi le persone sono più responsabilizzate che in passato rispetto ai propri risparmi, avranno pensioni proporzionate ai contributi versati soprattutto all’inizio della propria carriere lavorativa e cambieranno lavoro più spesso che in passato. Le persone spesso non si sentono sufficientemente preparate per affrontare decisioni di questo tipo. E le disuguaglianze sono frutto non soltanto di condizioni di partenza diverse, ma anche proprio di livelli di conoscenze e di consapevolezza finanziaria diverse tra diverse persone.
Nel suo editoriale di apertura del primo numero di Eco lei individua in particolar modo due fenomeni che caratterizzano il dibattito italiano sull’economia. Da un lato una sorta di vero e proprio astio verso le statistiche, quando i numeri non combaciano con il messaggio comunicativo della politica, e dall’altra una sorta di negazionismo economico. Secondo lei come si spiega tale fenomeno? Perché in Italia è così forte questa sorta di avversione ai numeri, alle statistiche? E quali conseguenze ha comportato questo per il nostro paese?
Io credo che in Italia si sia venuta definendo una cultura del confronto pubblico non sufficientemente nutrita dalle statistiche. Questo è dovuto anche al fatto che molte delle persone protagoniste del dibattito pubblico hanno una scarsa formazione quantitativa e sanno leggere con fatica le statistiche. In più c’è un modo molto comodo di accusare le statistiche quando queste danno dei messaggi che non sono congruenti rispetto alle tesi che si vogliono sostenere. Esiste una forma di negazionismo che è molto grave, perché toglie dal confronto pubblico una base comune. Il confronto pubblico ha bisogno di avere alcuni punti fermi, altrimenti si viaggia su universi paralleli: ognuno si mantiene sui pregiudizi che aveva in partenza. Per questo è invece molto importante valorizzare le statistiche come base conoscitiva e poi discutere come interpretare questi dati. nessuna base per disputare.
Il fatto preoccupante di questa scarsa cultura statistica e del negazionismo economico è che tali criticità possono essere strumentalizzate da gruppi di pressione per sostenere la loro causa e molti rischiano di essere strumentalizzati da queste operazioni. Pensiamo a quello che è successo con l’operazione Quota Cento o altre operazioni sulle pensioni. In questo caso si permetteva alle persone di andare in pensione prima sostenendo di creare lavoro per i giovani. Alcuni politici chiaramente sostenevano questa narrativa in quanto era un’operazione popolare e volevano farla apparire, allo stesso tempo, un’iniziativa rivolta ai giovani, quando in realtà era contro di loro poiché appesantiva il debito che dovranno pagare in futuro.
Oggi c’è chi nega che il mercato del lavoro in Italia abbia creato posti di lavoro o che abbia creato posti di lavoro a tempo indeterminato. La realtà è che questi lavori sono stati creati, poi uno può discutere quali sono le loro caratteristiche ma rimane indubbio che il nostro mercato del lavoro dal punto di vista della crescita occupazionale nell’ultimo anno e mezzo ha dato risultati davvero importanti, positivi e per certi aspetti anche sorprendenti.
L’altra domanda era proprio sul tema del lavoro e dei salari essendo l’argomento cardine del primo numero. Volevamo chiedere se potesse spiegarci questa correlazione che viene evidenziata nel primo numero tra la crescita dell’occupazione e la dinamica dei salari.
In Italia i salari hanno faticato più che altrove a recuperare il terreno perso con l’aumento del costo della vita, lo vediamo chiaramente, i dati lo dicono. In altri paesi europei invece il recupero dei salari c’è stato mente nel nostro Paese questo non è avvenuto o sta avvenendo solo con grande ritardo. Questo lo spieghiamo col fatto che ci sono dei problemi nei meccanismi di contrattazione, una contrattazione virtualmente centralizzata ma che interviene con grandissimo ritardo. I contratti vengono siglati due o tre anni dopo la loro scadenza e molto spesso anche questa contrattazione non riesce a coprire tutti i lavoratori che dovrebbero essere coperti. Come ci dicono i dati dell’Inps c’è una quota consistente di lavoratori che dovrebbero essere soggetti ad alcuni contratti ma i cui salari sono inferiori ai minimi tabellari stabiliti dai contratti.
In più c’è stato il fenomeno crescente dei cosiddetti contratti pirata che praticano spesso degli sconti addirittura del 40% sui minimi stabiliti dai contratti siglati dai sindacati confederali. È vero, come ha scritto il CNEL, che questi contratti cosiddetti pirata coinvolgono pochi lavoratori, però il fatto stesso che ci siano trascina verso il basso tutta la struttura dei salari. Inoltre, i dati disponibili sugli iscritti al sindacato, come documentiamo su Eco, sembrano essere dei dati poco realistici: il tasso di sindacalizzazione in Italia potrebbe essere del 20% più basso di quello dei sindacati. Tutto ciò ci porta a dire che in Italia c’è un problema molto serio di contrattazione salariale. Per tale ragione l’inflazione ha portato ad un ulteriore abbassamento dei salari in Italia rispetto quanto avviene in altri Paesi. Come è noto, se i salari sono più bassi è comprensibile che la domanda di lavoro sia più alta e quindi questo potrebbe spiegare perché l’occupazione è andata così bene dal punto di vista del numero di occupati negli ultimi anni.
L’ultima domanda riguarda l’ultimo numero di Eco che si concentra sulla sovranità economica europea. Nel numero è evidenziato il legame tra la gestione del rischio politico e la gestione del rischio economico. Vorremmo chiederle se, secondo lei, siamo di fronte alla fine della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta nel recente passato.
C’è già stata da diversi anni l’indicazione di un rallentamento del processo di globalizzazione, tant’è che si parlava di slowbalisation, un rallentamento dell’integrazione globale dei mercati. Questo è visibile anche nei dati: dopo una forte e impetuosa crescita dagli anni 90’, questo processo è rallentato. La novità è quello che è accaduto dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Molti Paesi, a partire dall’Europa, si sono resi conto che ormai non si poteva più gestire il rischio economico e quello geopolitico in modo separato perché avevamo dittatori pronti ad utilizzare la dipendenza energetica come arma quasi militare. Avevamo Paesi, anche in questo caso regimi totalitari come la Cina, che hanno esercitato pressioni sfruttando la dipendenza economica non solo sui paesi africani, ma anche sui paesi europei o sui nuovi membri dell’Unione Europea. Abbiamo visto gli Stati Uniti sotto Trump rinnegare gli impegni che avevano preso a livello multilaterale avviando negoziati e trattative ignorando o addirittura contrapponendosi alle esigenze del loro alleato storico, l’Europa. Tutto questo credo che debba far riflettere sulla necessità di tenere conto del rischio geopolitico anche nelle scelte economiche. L’integrazione europea è andata avanti in quanto trainata dall’integrazione economica, lasciando ai Paesi singoli la gestione del rischio geopolitico. Non so se l’Europa seguirà gli Stati Uniti nell’ imporre dazi elevati all’importazione, per esempio, di autovetture elettriche dalla Cina, ma sicuramente si sta riflettendo su questo piano e ci saranno politiche più attente anche per esempio in tema dei semiconduttori, per ridurre, come è stato fatto sul piano energetico rispetto alla Russia, la dipendenza dell’Europa.