Corte Europea per i Diritti Umani, una seconda possibilità sul caso Perinçek
Con una sentenza che ha fatto molto discutere, la Corte Europea per i Diritti Umani ha scagionato, il 17 Dicembre del 2013, Dogu Perincek, sconosciuto ai più nel nostro Paese, ma tristemente noto nel mondo della diaspora Armena (e non) per essere un convinto negazionista del genocidio armeno. Poche settimane fa l’importante organo ha deciso di riesaminare il caso, e il nazionalista turco sarà nuovamente sotto i riflettori il prossimo 28 Gennaio, avendo accettato i giudici di Strasburgo il ricorso avanzato dalla Svizzera. Ripercorriamo i fatti.
Questa storia comincia nel 2005, quando, durante una serie di conferenze tenute un giro per la Svizzera, il Presidente del Partito dei Lavoratori turco (gruppo nazionalista di sinistra) Dogu Perinçek parla più volte del genocidio armeno definendolo “menzogna internazionale”. Nel 2007 la giustizia elvetica lo condanna in quanto le sue allocuzioni erano “animate da un movente razzista, negato a più riprese il genocidio armeno” considerando ancche che i discorsi di Perinçek non erano motivati e dalla volontà di aprire un dibattito storico ma da un’evidente volontà negazionista. Il nazionalista viene riconosciuto colpevole per aver violato l’articolo 261 bis del Codice penale, che sanziona nello specifico chiunque neghi, minimizzi grossolanamente o cerchi di giustificare un genocidio. La pena inflitta dal Tribunale di Losanna fu di 90 giorni, ammenda con aggravante per discriminazione razziale e 3000 franchi di multa, per aver negato pubblicamente l’esistenza del genocidio armeno. Nel 2013 il colpo di scena. Il Presidente del Partito dei Lavoratori turchi, che aveva portato il caso davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani, ottiene quello che vuole: per cinque voti favorevoli e due contrari, la Corte giudica che la sua condanna da parte del tribunale elvetico violava l’articolo 10 della Convenzione Europea per i Diritti Umani. Si afferma che le motivazioni avanzate dalla magistratura svizzera per giustificare la condanna di Dogu Perinçek non fossero tutte pertinenti, per non dire che fossero addirittura insufficienti. Secondo la Corte, le istanze svizzere non avevano dimostrato che la condanna del nazionalista turco rispondeva ad una “necessità sociale impellente” in una società democratica, né che fosse necessaria per proteggere l’onore e i sentimenti dei discendenti delle vittime che avevano subito delle atrocità dal 1915 in poi.
La Svizzera reagisce con forte emozione a questa sentenza e fa ricorso. Questo viene accettato e la Corte invia il caso Perinçek alla Grande Camera della Corte Europea. Questa decisione è stata accolta con sollievo dall’Associazione Svizzera-Armenia (ASA), il suo Presidente onorario, Sarkis Shahinian, afferma rendersi conto della “complessità” del procedimento innescato. Ma la Svizzera non è più sola nel perorare questa causa; l’appoggio dell’Armenia e della Francia come alte parti contraenti, danno nuovo spessore a questo caso. La Svizzera può oggi contare anche del sostegno de Licra (Lega Internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo), la FIDH (International Federation for Human Rights), la Lega per i Diritti Umani turca, la ASA (Association Suisses d’Armenie) e l’associazione tedesca per la difesa dei popoli minacciati di Thessa Hofman che compaiono come parti terze. Oltre ad Amal Alamuddin Clooney, l’accusa verrà rappresentata anche da Geoffrey Robertsons, avvocato di reputazione internazionale e autore del libro “Un genocidio che disturba: Chi si ricorda oramai degli Armeni?”.
Ricordiamo che Dogu Perinçek non solo è stato processato da Ankara, incarcerato a vita nell’Agosto 2013 e miracolosamente rilasciato lo scorso Marzo per, aver preso parte al movimento estremista Ergenekon, accusato complottare contro Erdogan e volere la sua destituzione, ma è anche membro del Comitato Talaat. Questo Comitato prende il nome da uno dei tre architetti del genocidio armeno ed opera in Europa con il fine di diffondere azioni negazioniste e manifestazioni pubbliche di stampo negazionista. Nel 2012 in Francia sono riusciti a radunare 30mila persone che hanno sfilato sotto l’egida del Comitato Talaat Pacha, scandendo slogan anti armeni dai toni più che offensivi, toni che rivelavano più un desiderio di odio, intimidazione e provocazione che libertà di parola. Sicuramente la Corte Europea per i Diritti Umani dovrà tener conto anche di questo. Negare un genocidio vuol dire uccidere due volte, e questo non c’entra nulla con la libertà di espressione.
di Jacqueline Rastrelli
26 gennaio 2015